venerdì 16 aprile 2010

L'AMICO RITROVATO

Si, aspetta che arrivo, adesso apro la finestra
sistemo la poltrona proprio in mira
che così ci possiamo guardare bene in faccia
e dopo tanto tempo tornare a parlarci.

Allora, lo sai che ho perso il lavoro
ma che sono fiducioso e mi sto dando da fare
E' che lo stesso mi sento in pace. Anzi, sai cosa ti dico?
Che adesso la sento nella punta dei piedi,
sì proprio una bella pace, che sale e adesso
ma guarda, è già arrivata alle punta delle dita
della mano destra, al pollice e all'indice
che impugnano questa biro, e la biro la sente
la sente questa pace, la scrive
e scrivendo la trattiene, ci parla
come ad un'amica ritrovata

Eh, dimmi un pò, ma quanti siamo?
Che sto perdendo il conto: allora
ci sono io, la finestra aperta,
la poltrona proprio in mira
e ci sei tu, caro il mio tiglio,
con le foglie tenere in questo
tardo pomeriggio di aprile.

Sì lo so che sei stato tu a chiamarmi
e che siamo noi quelli che ci dobbiamo parlare.
E' che primo mentre ti raccontavo, eri così attento e silenzioso
che non ci sono mica più abituato.
Adesso c'è il vento leggero che ti muove le foglie
e io non so come ma capisco:
mi fermo e ti lascio parlare.

Certo che ci capiamo proprio bene noi
non abbiamo mica bisogno di alzare la voce,
di interromperci, di parlarci sopra.
Come adesso. Ci bastano gli sguardi e i silenzi.
Che poi mica sono proprio silenzi:
senti un pò che bellezza le campane del Pistornile
e che gioia nei richiami di quei due pennuti.
Sono proprio vicini. Li conosci?
Sono appena arrivati? Sono tuoi ospiti?.

Non rispondi, cosa fai adesso, giochi allo specchio?
Ah sì, sono io quello che deve rispondere
che le domande sono in realtà rivolte a me?
Ma lo sai che sei proprio un bel tipo
Mi sa che mi conosci proprio bene.

Sì, sto provando a conoscermi
in questo tempo nuovo
in questa stanza così ospitale.
Ma guardà un pò, a proposito di ospiti:
vedo che hai visite, due belle e grasse gazze.
Sai cosa faccio? Smetto di scrivere (e di rispondermi)
solo per non spaventarle, cosa hai capito?

Ah, a proposito. La prossima volta
se non disturbo posso salire anch'io?
Che così allarghiamo la compagnia
e ce la contiamo un pò su.
Chissa quanto storie avranno da raccontare le gazze
e chissa che anch'io non abbia buone nuove.

martedì 14 aprile 2009

Camminata meditata

Tentativo di camminata meditata ma troppi pensieri personali e di lavoro, troppo inquinamento mentale.
Poi, improvvisa, la decisione di abbandonare la strada per un sentiero tra le vigne. Il paesaggio si impone e con esso la decisione di fermarsi ad ammirare. I passi si fanno leggeri, senti soffice la terra sotto i piedi che ti accoglie, il suo contatto e il tuo avanzare come una carezza e una preghiera di ringraziamento.
Poi, di conseguenza, la visione e la traduzione in haiku:

Tra il fitto delle viti
vuoto di foglie:
il sole rosso

sabato 21 febbraio 2009

L'idea è quella di prendere spunto da canzoni (o singoli versi) per "riambientarle" in racconti, fornire loro una nuova storia. Il secondo esperimento è con "Ovunque proteggi di Vinicio Caposela. Buona lettura.

Girarsi su di un lato con disinvoltura, naturalezza e perfetto tempismo. Il gesto giusto al momento giusto. A loro insaputa, entrambi erano ormai diventati “specialisti” in materia.
Routine matrimoniale, difficoltà comunicativa, chiusura emotiva? Sterili definizioni. Tutto questo certo, ma soprattutto dell’altro: quell’altro che si annida nella zona neutra del non detto. Quell’altro che avvertivano, prima di tutto, sulla propria pelle.
Lui o lei in questa storia sono intercambiabili, perché entrambi sapevano di sapere ma non riuscivano a condividerla, la loro consapevolezza. E allora ci pensò la grande nevicata.

Lui o lei non ha importanza, fatto sta che quella sera gli scuri della finestra restarono aperti sui fiocchi che scendevano fitti e regolari. Insieme ai fiocchi la luce e il silenzio - quella luce e quel silenzio che solo una nevicata riesce a creare in un tempo sospeso - fecero il resto.
Le mani ritornarono carezzevoli, i gesti a proporsi naturali. Lui o lei non ha importanza. Dal riproduttore stereo Ipod, dono di Natale, una mano consapevole e sicura selezionò e diffuse:

Ma ancora proteggi la grazia del mio cuore,
adesso e per quando tornerà il tempo...
Il tempo per partire,
il tempo di restare,
il tempo di lasciare,
il tempo di abbracciare.
In ricchezza e in fortuna,

in pena e in povertà,
nella gioia e nel clamore,
nel lutto e nel dolore,
nel freddo e nel sole,
nel sonno e nell'amore.
Ovunque proteggi la grazia del mio cuore.
Ovunque proteggi la grazia del tuo cuore

domenica 8 febbraio 2009

La luna del pomeriggio

L'idea è quella di prendere spunto da canzoni (o singoli versi) per "riambientarle" in racconti, fornire loro una nuova storia. Il primo esperimento è con 3/4 di Gian Maria Testa. Buona lettura.

Almeno non avevano fumato. Su questo era stata irremovibile. La casa disponibile per gli amici (di lui), accoglienza e buonumore assicurati, ma niente sigarette. Magra consolazione, pensò nel riporre piatti e bicchieri nella lavastoviglie.
L’ennesima serata di parole, di discorsi, lievi, triviali, impegnati. Maschili. Ad un certo punto aveva provato a contarli gli “io” pronunciati, i verbi declinati alla prima persona.
Una alluvione, meglio perdere il conto. Meglio perdersi, estraniarsi pur dimostrandosi presente, vigile e pronta ad interloquire. Ma nessuno l’aveva coinvolta, neanche lui ma questo per ripicca e lei lo sapeva. Ritorsione per essersi imposta e aver dettato la seconda condizione: la sua presenza all’ennesima serata tra amici.
Nulla avevano potuto le sue meschine obiezioni: “ma poi lo sai si finisce a parlare di cose maschili, qualcuno potrebbe sentirsi in imbarazzo, è la nostra serata”.La nostra serata.
Ci sono espressioni che ti tolgono il fiato e ti ritrovi al tappeto e capisci che no, questa volta non ce la farai a rialzarti prima del 10. Invece aveva incassato e trovato la forza insperata di reagire.
No, questa volta non era caduta, si era ripresa e con un ampio e profondo respiro aveva contrattaccato: “anch’io o niente”.Ma adesso aveva capito che la sua presenza era stata un’aggiunta forzata. L’aveva trattata come sopramobile, come chi c’era ma non doveva esserci.
Alla fine era stata una prova di forza inutile, stupida. Maschile. Chiusa nella sua stanza, sola, capiva tutta la tristezza di un rapporto senza presente, avvertiva la mancanza di parole tenere, carezzevoli, come:

Volevo tenere per te,
la luna del pomeriggio.
Volevo tenerla per te,
perchè sola com'è solo il coraggio.
Volevo tenere per te,
la luce di quando fa giorno
e volevo che fosse per te
anche l'attesa che diventa ritorno...
E volevo tenere per te
la piu' vera di tutte le rose,
volevo tenerla per te,
come tutte le cose...
come tutte le cose

sabato 14 giugno 2008

La cura

E' un piccolo grande libro che consiglio: "L'arte di coltivare l'orto e se stessi". L'autrice è Adriana Bonavia Giorgetti che lo ha stampato in proprio a Daverio (Varese) dove vive e lavora in un agriturismo, cascina didattica e molto altro.

La semina, la cura, il dare acqua, il sostegno, il cimare sono sì operazioni colturali, ma a ben considerare hanno a che fare con la nostra vita, crescita, maturazione, consapevolezza.

"Avere cura di un orto, io credo, è un modo di amare la vita e averne cura" scrive l'autrice . La cura, il prendersi cura degli altri. Il sostegno, come nei pomodori, può essere una persona, un libro, un evento. Il cimare è tagliare il superfluo, l'artificiale, tutto ciò che ci impedisce di essere naturali ed è quindi operazione per ancorarci all'essenziale, invito a non disperderci, ad eliminare le energie negative.

Il tempo che dedichiamo all'orto (e quindi alla vita) è tempo perduto all'ascolto di noi stessi e alla crescita della bellezza. Come dice la volpe al Piccolo Principe: "è il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante".

Tra i tanti testi che l'autrice cita a margine del suo ragionamento, mi piace questo tratto da "Il saluto dell'alba" e che si collega al tema della "cura":

Abbi cura , dunque,
del giorno che nasce!
E' questo il saluto dell'alba
.


sabato 7 giugno 2008

Parliamo di haiku

Parliamo di haiku, componimento breve di 5-7-5 sillabe sviluppatosi in Giappone. Evito per ragioni di spazio la tecnica, non considero il rapporto (fondamentale) con la natura, i riferimenti stagionali.

Partiamo piuttosto dai testi, dall’esperienza testuale. Lasciamo parlare e agire i testi.
Ecco allora Basho, il più grande autore di haiku, monaco buddista vissuto nel XVII secolo:

Se guardo attentamente
vedo il nazuna in fiore
presso la siepe
!


Questo è invece Alfred Tennyson, uno dei più famosi poeti inglesi (1809-1892):

Fiore che spunti dal muro screpolato,
io ti colgo dalla fessura; -
ti tengo qui, la radice e tutto, nella mia mano,
piccolo fiore, - ma se potrò capire
ciò che sei, la radice e tutto, e tutto in tutto,
saprò che cosa sono Dio e l’uomo.



Bella e grande differenza vero? Basho non tocca il fiore, si limita a guardarlo “attentamente”. Per lui e per gli autori di haiku conoscere il fiore è diventare il fiore, vedere nella natura delle cose più ancora che osservare, guardare.
Tennyson invece? Coglie il fiore, lo strappa, deve possederne “la radice e tutto”. E il fiore diventa un piccolo strumento del proprio egocentrismo, una vittima dell’affermazione della propria individualità. Il risultato finale non è l’oggetto (ormai morto senza radici) ma l’ansia del capire, del giudicare, del penetrare, non dell’apprendere, del sospendere il giudizio, tanto meno del vedere, del semplice essere presente.

Difficile capire e accettare, per noi occidentali poeti e non, che un haiku: “nasce dal silenzio, brilla per un attimo e poi torna nel suo silenzio”.

Difficile capire (e soprattutto cercare di praticare) la regola prima di scrittura di un haiku che è la seguente: “il soggetto per poter cogliere e accogliere la genuità dell’evento si rende vuoto di ogni intenzionalità sia intellettuale che sentimentale, al punto di rendersi equivalente all’evento”.

Un esempio? Ecco il più famoso haiku di Basho:

Vecchio stagno.

Tonfo di una rana
suono d’acqua
.

Chi scrive non c’è, non c’è come voce che descrive o peggio commenta un evento. C’è solo e su tutto il vuoto come assenza di un soggetto. Il poeta si limita a registrare ciò che ha visto e in questo utilizza la sua mente come uno specchio pulito, come una superficie vuota.
Prima di parlare di come intendere correttamente il termine “vuoto”, chiediamoci: qual è il centro della poesia, quale dei tre soggetti descritti è predominante? Nessuno, non c’è soggetto “forte”, ciascuno non ha senso senza l’altro, ciò che conta è il loro rapporto di interdipendenza.

Allora, il vuoto. Un haiku nasce grazie al vuoto, meglio dal vuoto, ma anche apre al vuoto, ovverosia alla libertà di molte “finitezze”, al dispiegarsi di molte determinazioni. Il vuoto, nella filosofia buddista e in particolare nella pratica degli haiku, va inteso come condizione delle infinite possibilità di altre parole. (Giangiorgio Pasqualotto, “Estetica del vuoto”, Marsilio, 1992)

Semplice? Assolutamente no, tremendamente difficile e complicato. Da capire e soprattutto da praticare. Poi è arrivato Hillman a spiegare la differenza tra percezione sensoriale accidentalmente vulgata e derivante dall’empirismo inglese e la percezione sensoriale dei greci.
La sensazione in greco è aisthesis la cui radice rimanda a “introiettare” e “inspirare”, trattenere il fiato dalla meraviglia che è la risposta estetica primaria.
E allora “accogliere” significa prendere a cuore, inspirare il mondo. “Non soltanto io che mi confesso riversando la mia anima, ma anche io che ascolto, nelle cose che parlano, la confessione dell’anima mundi”.

Restituire l’anima al mondo significa conoscere le cose istaurando con loro un rapporto intimo, carnale. Cominciando dalla rivoluzione aggettivale, evitando la descrizione del proprio vissuto, dei propri sentimenti, su nozioni che riguardando il nostro “io” sempre più grande e fagocitante.

Per percepire il valore delle cose occorre restituire alle cose le qualità cosiddette secondarie: colori, sapori, qualità tattali. Il fermarci a notare ciascun evento limiterebbe la nostra fame di eventi e questo comporterebbe il
rallentamento dei consumi". (Hillman, "L'anima del mondo e il pensiero del cuore", Adelphi, 2002)

Io rallento e mi fermo qui!

giovedì 5 giugno 2008

Musica e altro

Oggi, calda giornata uggiosa, avverto l'urgenza di rallentare, di non farmi sommergere dall'ingranaggio che ti vuole efficiente, scattante, conciliante, pronto a dare risposte, a farti carico, a risolvere. In una parola, multiforme e dissociato.

Provo allora a rallentare con la musica. Cammino e con il magico iPod ascolto i nuovi gruppi islandesi: su tutti i Seabear e i brani, tutti stupefacenti, di "The ghost that carried us away".

Funziona. Avverto una consistenza sotto i miei piedi, mi sorprendo a pensare di accarezzare il suolo che mi ospita. Già, io sono un ospite e come ogni ospite devo essere cortese, disponibile.

Semplice no? E allora mi torna in mente la camminata consapevole di Thicht Nath Han, monaco buddista. Un pò troppo semplice e facile.
Certo quando le cose girano e hai solo bisogno di rallentare, chissà perchè la spiritualità orientale funziona, ti entra dentro senza problemi. Non sarà che, nella mentalità europea e occidentale, questa è una pratica di vita per chi sta bene? Attori, musicisti, gente ricca sta lì a testimoniare questo.

Ma penso anche a Chandra Candiani, ai suoi penetranti e laceranti scritti sulla pratica del dharma, alle sue poesie. Penso, cammino, mentre la musica fluisce liquida.

Penso alle possibilità che mi ha aperto internet nello scoprire la musica islandese: Seabear, Mum, The Album Leaf. Penso alla musica che ascoltavo da giovane e che adesso ho ritrovata nella sua fascinazione, all'ascolto ancora più coinvolgente: Popol Vuh, Terry Riley, Third Ear Band.
Penso: ma perchè li avevo scelti a 20 anni e perchè adesso che ne ho 52 mi emozionano ancora, li sto ricercando? Sto tornando sui miei passi, sto capendo il mio passato, il nocciolo che ha poi prodotto la ghianda?

Sì, proprio musica e altro. A proposito: il prossimo post sarà sugli HAIKU. L'ho promesso a chi mi ha aperto il suo cuore.