sabato 7 giugno 2008

Parliamo di haiku

Parliamo di haiku, componimento breve di 5-7-5 sillabe sviluppatosi in Giappone. Evito per ragioni di spazio la tecnica, non considero il rapporto (fondamentale) con la natura, i riferimenti stagionali.

Partiamo piuttosto dai testi, dall’esperienza testuale. Lasciamo parlare e agire i testi.
Ecco allora Basho, il più grande autore di haiku, monaco buddista vissuto nel XVII secolo:

Se guardo attentamente
vedo il nazuna in fiore
presso la siepe
!


Questo è invece Alfred Tennyson, uno dei più famosi poeti inglesi (1809-1892):

Fiore che spunti dal muro screpolato,
io ti colgo dalla fessura; -
ti tengo qui, la radice e tutto, nella mia mano,
piccolo fiore, - ma se potrò capire
ciò che sei, la radice e tutto, e tutto in tutto,
saprò che cosa sono Dio e l’uomo.



Bella e grande differenza vero? Basho non tocca il fiore, si limita a guardarlo “attentamente”. Per lui e per gli autori di haiku conoscere il fiore è diventare il fiore, vedere nella natura delle cose più ancora che osservare, guardare.
Tennyson invece? Coglie il fiore, lo strappa, deve possederne “la radice e tutto”. E il fiore diventa un piccolo strumento del proprio egocentrismo, una vittima dell’affermazione della propria individualità. Il risultato finale non è l’oggetto (ormai morto senza radici) ma l’ansia del capire, del giudicare, del penetrare, non dell’apprendere, del sospendere il giudizio, tanto meno del vedere, del semplice essere presente.

Difficile capire e accettare, per noi occidentali poeti e non, che un haiku: “nasce dal silenzio, brilla per un attimo e poi torna nel suo silenzio”.

Difficile capire (e soprattutto cercare di praticare) la regola prima di scrittura di un haiku che è la seguente: “il soggetto per poter cogliere e accogliere la genuità dell’evento si rende vuoto di ogni intenzionalità sia intellettuale che sentimentale, al punto di rendersi equivalente all’evento”.

Un esempio? Ecco il più famoso haiku di Basho:

Vecchio stagno.

Tonfo di una rana
suono d’acqua
.

Chi scrive non c’è, non c’è come voce che descrive o peggio commenta un evento. C’è solo e su tutto il vuoto come assenza di un soggetto. Il poeta si limita a registrare ciò che ha visto e in questo utilizza la sua mente come uno specchio pulito, come una superficie vuota.
Prima di parlare di come intendere correttamente il termine “vuoto”, chiediamoci: qual è il centro della poesia, quale dei tre soggetti descritti è predominante? Nessuno, non c’è soggetto “forte”, ciascuno non ha senso senza l’altro, ciò che conta è il loro rapporto di interdipendenza.

Allora, il vuoto. Un haiku nasce grazie al vuoto, meglio dal vuoto, ma anche apre al vuoto, ovverosia alla libertà di molte “finitezze”, al dispiegarsi di molte determinazioni. Il vuoto, nella filosofia buddista e in particolare nella pratica degli haiku, va inteso come condizione delle infinite possibilità di altre parole. (Giangiorgio Pasqualotto, “Estetica del vuoto”, Marsilio, 1992)

Semplice? Assolutamente no, tremendamente difficile e complicato. Da capire e soprattutto da praticare. Poi è arrivato Hillman a spiegare la differenza tra percezione sensoriale accidentalmente vulgata e derivante dall’empirismo inglese e la percezione sensoriale dei greci.
La sensazione in greco è aisthesis la cui radice rimanda a “introiettare” e “inspirare”, trattenere il fiato dalla meraviglia che è la risposta estetica primaria.
E allora “accogliere” significa prendere a cuore, inspirare il mondo. “Non soltanto io che mi confesso riversando la mia anima, ma anche io che ascolto, nelle cose che parlano, la confessione dell’anima mundi”.

Restituire l’anima al mondo significa conoscere le cose istaurando con loro un rapporto intimo, carnale. Cominciando dalla rivoluzione aggettivale, evitando la descrizione del proprio vissuto, dei propri sentimenti, su nozioni che riguardando il nostro “io” sempre più grande e fagocitante.

Per percepire il valore delle cose occorre restituire alle cose le qualità cosiddette secondarie: colori, sapori, qualità tattali. Il fermarci a notare ciascun evento limiterebbe la nostra fame di eventi e questo comporterebbe il
rallentamento dei consumi". (Hillman, "L'anima del mondo e il pensiero del cuore", Adelphi, 2002)

Io rallento e mi fermo qui!

3 commenti:

Anonimo ha detto...

come, ti fermi proprio sul più bello? :D E gli haiku in metrica libera della nuova avanguardia giapponese? gli haisan spogliati di qualsiasi riferimento materiale, kigo, stagioni? non ti hanno ancora coinvolto o sei tra i tanti che li chiamano falsi-haiku e li disdegnano? (un giorno un critico letterario, anche piuttosto famoso, ha scatenato l'ilarità generale dicendo "I tuoi non sono haiku, la metrica è errata, il concetto intimista, il kigo inesistente" LOL!

sati ha detto...

Semplicemente e volutamente (mi sento un pò Veltroni!!) mi interessava e mi interessa capire non "come" ma "perchè" scrivere haiku. Ritengo più importante della metrica, del kigo ed altro, la disposizione con la quale ci si avvicina a questi componimenti.
Componimenti che sono di una facilità apparente. Non dimenticarti carissima erbaviola che, così come siamo intossicati da tante schifezze, lo siano anche nelle costruzioni mentali che ci portiamo dentro, introiettate e sedimentate da anni di insegnamento "non naturale" della poesia.
E allora è bene usare cautela nei confronti di chi si dichiara scrittore di haiku: vorrei sapere come mangia, cosa respira, cosa legge, cosa si aspetta da una pratica che non è solo scritturale ma di vita.
Poi lo so che ci sono interessanti esempi di haiku moderni occidentali ed italiani. So che alcuni poeti, penso a Corrado Govoni più che ad Ungaretti, hanno scritto haiku forse inconsapevoli.
Insomma dubito di noi italiani santi, poeti e navigatori, del nostro substrato di petrarchismo, di montalismo (quanto detesto Montale!).
Dubito ergo sum.

Anonimo ha detto...

ma povero Montale! :D Il coinvolgimento, soprattutto sentimentale, dell'autore è forse più attuale: l'haiku classico è improntato sul distacco. Io comunque trovo che sia molto più haiku-inconsapevole Luzi che Ungaretti. Sarà l'ora ma mi torna in mente questa per esempio:

La notte lava la mente.

Poco dopo si è qui come sai bene,
file d'anime lungo la cornice,
chi pronto al balzo, chi quasi in catene.

Qualcuno sulla pagina del mare
traccia un segno di vita, figge un punto.
Raramente qualche gabbiano appare.


Se poi Quasimodo non fosse così quasimodo-centrico, sarebbe più haiku di tutti ;)


Posso azzardare un'ipotesi cattivella? La maggioranza della gente che scrive haiku lo fa perché è una forma apparentemente semplice, immediata, che richiede poco sforzo. I risultati infatti sono una moltitudine di siti che perpetuano al mondo obrobri estetici di rara crudezza. Presenti esclusi, chiaramente :D Siamo in un'era in cui la gente vuole essere artista, sì, ma con il minimo sforzo ;)