sabato 14 giugno 2008

La cura

E' un piccolo grande libro che consiglio: "L'arte di coltivare l'orto e se stessi". L'autrice è Adriana Bonavia Giorgetti che lo ha stampato in proprio a Daverio (Varese) dove vive e lavora in un agriturismo, cascina didattica e molto altro.

La semina, la cura, il dare acqua, il sostegno, il cimare sono sì operazioni colturali, ma a ben considerare hanno a che fare con la nostra vita, crescita, maturazione, consapevolezza.

"Avere cura di un orto, io credo, è un modo di amare la vita e averne cura" scrive l'autrice . La cura, il prendersi cura degli altri. Il sostegno, come nei pomodori, può essere una persona, un libro, un evento. Il cimare è tagliare il superfluo, l'artificiale, tutto ciò che ci impedisce di essere naturali ed è quindi operazione per ancorarci all'essenziale, invito a non disperderci, ad eliminare le energie negative.

Il tempo che dedichiamo all'orto (e quindi alla vita) è tempo perduto all'ascolto di noi stessi e alla crescita della bellezza. Come dice la volpe al Piccolo Principe: "è il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante".

Tra i tanti testi che l'autrice cita a margine del suo ragionamento, mi piace questo tratto da "Il saluto dell'alba" e che si collega al tema della "cura":

Abbi cura , dunque,
del giorno che nasce!
E' questo il saluto dell'alba
.


sabato 7 giugno 2008

Parliamo di haiku

Parliamo di haiku, componimento breve di 5-7-5 sillabe sviluppatosi in Giappone. Evito per ragioni di spazio la tecnica, non considero il rapporto (fondamentale) con la natura, i riferimenti stagionali.

Partiamo piuttosto dai testi, dall’esperienza testuale. Lasciamo parlare e agire i testi.
Ecco allora Basho, il più grande autore di haiku, monaco buddista vissuto nel XVII secolo:

Se guardo attentamente
vedo il nazuna in fiore
presso la siepe
!


Questo è invece Alfred Tennyson, uno dei più famosi poeti inglesi (1809-1892):

Fiore che spunti dal muro screpolato,
io ti colgo dalla fessura; -
ti tengo qui, la radice e tutto, nella mia mano,
piccolo fiore, - ma se potrò capire
ciò che sei, la radice e tutto, e tutto in tutto,
saprò che cosa sono Dio e l’uomo.



Bella e grande differenza vero? Basho non tocca il fiore, si limita a guardarlo “attentamente”. Per lui e per gli autori di haiku conoscere il fiore è diventare il fiore, vedere nella natura delle cose più ancora che osservare, guardare.
Tennyson invece? Coglie il fiore, lo strappa, deve possederne “la radice e tutto”. E il fiore diventa un piccolo strumento del proprio egocentrismo, una vittima dell’affermazione della propria individualità. Il risultato finale non è l’oggetto (ormai morto senza radici) ma l’ansia del capire, del giudicare, del penetrare, non dell’apprendere, del sospendere il giudizio, tanto meno del vedere, del semplice essere presente.

Difficile capire e accettare, per noi occidentali poeti e non, che un haiku: “nasce dal silenzio, brilla per un attimo e poi torna nel suo silenzio”.

Difficile capire (e soprattutto cercare di praticare) la regola prima di scrittura di un haiku che è la seguente: “il soggetto per poter cogliere e accogliere la genuità dell’evento si rende vuoto di ogni intenzionalità sia intellettuale che sentimentale, al punto di rendersi equivalente all’evento”.

Un esempio? Ecco il più famoso haiku di Basho:

Vecchio stagno.

Tonfo di una rana
suono d’acqua
.

Chi scrive non c’è, non c’è come voce che descrive o peggio commenta un evento. C’è solo e su tutto il vuoto come assenza di un soggetto. Il poeta si limita a registrare ciò che ha visto e in questo utilizza la sua mente come uno specchio pulito, come una superficie vuota.
Prima di parlare di come intendere correttamente il termine “vuoto”, chiediamoci: qual è il centro della poesia, quale dei tre soggetti descritti è predominante? Nessuno, non c’è soggetto “forte”, ciascuno non ha senso senza l’altro, ciò che conta è il loro rapporto di interdipendenza.

Allora, il vuoto. Un haiku nasce grazie al vuoto, meglio dal vuoto, ma anche apre al vuoto, ovverosia alla libertà di molte “finitezze”, al dispiegarsi di molte determinazioni. Il vuoto, nella filosofia buddista e in particolare nella pratica degli haiku, va inteso come condizione delle infinite possibilità di altre parole. (Giangiorgio Pasqualotto, “Estetica del vuoto”, Marsilio, 1992)

Semplice? Assolutamente no, tremendamente difficile e complicato. Da capire e soprattutto da praticare. Poi è arrivato Hillman a spiegare la differenza tra percezione sensoriale accidentalmente vulgata e derivante dall’empirismo inglese e la percezione sensoriale dei greci.
La sensazione in greco è aisthesis la cui radice rimanda a “introiettare” e “inspirare”, trattenere il fiato dalla meraviglia che è la risposta estetica primaria.
E allora “accogliere” significa prendere a cuore, inspirare il mondo. “Non soltanto io che mi confesso riversando la mia anima, ma anche io che ascolto, nelle cose che parlano, la confessione dell’anima mundi”.

Restituire l’anima al mondo significa conoscere le cose istaurando con loro un rapporto intimo, carnale. Cominciando dalla rivoluzione aggettivale, evitando la descrizione del proprio vissuto, dei propri sentimenti, su nozioni che riguardando il nostro “io” sempre più grande e fagocitante.

Per percepire il valore delle cose occorre restituire alle cose le qualità cosiddette secondarie: colori, sapori, qualità tattali. Il fermarci a notare ciascun evento limiterebbe la nostra fame di eventi e questo comporterebbe il
rallentamento dei consumi". (Hillman, "L'anima del mondo e il pensiero del cuore", Adelphi, 2002)

Io rallento e mi fermo qui!

giovedì 5 giugno 2008

Musica e altro

Oggi, calda giornata uggiosa, avverto l'urgenza di rallentare, di non farmi sommergere dall'ingranaggio che ti vuole efficiente, scattante, conciliante, pronto a dare risposte, a farti carico, a risolvere. In una parola, multiforme e dissociato.

Provo allora a rallentare con la musica. Cammino e con il magico iPod ascolto i nuovi gruppi islandesi: su tutti i Seabear e i brani, tutti stupefacenti, di "The ghost that carried us away".

Funziona. Avverto una consistenza sotto i miei piedi, mi sorprendo a pensare di accarezzare il suolo che mi ospita. Già, io sono un ospite e come ogni ospite devo essere cortese, disponibile.

Semplice no? E allora mi torna in mente la camminata consapevole di Thicht Nath Han, monaco buddista. Un pò troppo semplice e facile.
Certo quando le cose girano e hai solo bisogno di rallentare, chissà perchè la spiritualità orientale funziona, ti entra dentro senza problemi. Non sarà che, nella mentalità europea e occidentale, questa è una pratica di vita per chi sta bene? Attori, musicisti, gente ricca sta lì a testimoniare questo.

Ma penso anche a Chandra Candiani, ai suoi penetranti e laceranti scritti sulla pratica del dharma, alle sue poesie. Penso, cammino, mentre la musica fluisce liquida.

Penso alle possibilità che mi ha aperto internet nello scoprire la musica islandese: Seabear, Mum, The Album Leaf. Penso alla musica che ascoltavo da giovane e che adesso ho ritrovata nella sua fascinazione, all'ascolto ancora più coinvolgente: Popol Vuh, Terry Riley, Third Ear Band.
Penso: ma perchè li avevo scelti a 20 anni e perchè adesso che ne ho 52 mi emozionano ancora, li sto ricercando? Sto tornando sui miei passi, sto capendo il mio passato, il nocciolo che ha poi prodotto la ghianda?

Sì, proprio musica e altro. A proposito: il prossimo post sarà sugli HAIKU. L'ho promesso a chi mi ha aperto il suo cuore.

martedì 4 marzo 2008

Panchina di primavera

C'è che c'è aria di primavera, che è tempo di sorrisi, che, come si diceva un tempo, dobbiamo "togliere ai sorrisi la loro museruola".
C'è che bisogna rimettere all'ordine del giorno la bellezza della primavera .

C'è che bisogna ricominiciare a riascoltare, c'è che bisogna togliere il punto interrogativo ai versi di Majakovskij:

Ascoltate!
Se si accendono
le stelle
vuol dire che qualcuno ne ha bisogno.


C'è che leggiamo, ci informiamo, parliamo, ci capiamo, ma poi... . C'è che sono qui a pensare a come ritrovare la grazia del mio cuore, che le parole sono inganno e che sono più sincere le carezze, che quando una mia amica mi ha scritto "mi mancano tanto le tue lettere" ho capito di aver sbagliato tutto.

C'è che ho oggi ho mangiato un gelato e mi sono seduto sulla mia panchina del Castello a farmi scaldare dal sole di marzo.

C'è che tutti devono avere una panchina dove ascoltare in successione: Vecchioni "Le lettere d'amore" - Gianmaria Testa "3/4 - Vinicio Capossela "Ovunque proteggi".

C'è che "se ci trovi dei fiori in questa storia sono tuoi"....

martedì 22 gennaio 2008

Alberi

Sono le letture vagabonde, non programmate, quelle che aprono sentieri inattesi, favoriscono collegamenti, risvegliano pensieri ed emozioni accantonate come legna stagionata o conserve di frutta.

Sulla rivista di poesia "Niebo" (numero11, febbraio-marzo 1980), rileggo Boleslaw Lesmian (1877-1937), poco conosciuto poeta polacco e mi colpisce (ricolpisce) questo componimento:

Ecco, il sole trafigge di luce la selva lontana,
porgendo ai pini dal cielo il segno segreto della sera.
Ecco, i pini sono arsi, come se nelle profondità della selva
d'improvviso un che di scarlatto sia accaduto in eterno!


Attirato da quel segno, accorro là senza indugio,
per cogliere in tempo, prima di entrare nella notte buia,

nel suo esiguo durare e vedere con i miei occhi
ciò che già gli alberi hanno visto prima di me.

Da albero ad albero, da lettura presente a lettura passata il passo è breve. Annotare sempre (a matita mi raccomando) i passi che ci colpiscono ad una prima o seconda lettura: io ci metto quasi sempre la data delle letture, il numero di pagina corrispondente e un soggetto.
Ecco allora in Erri De Luca Tre cavalli le annotazioni "alberi":

Un albero ha bisogno di due cose: sostanza sotto terra e bellezza fuori. Sono creature concrete ma spinte da una forza di eleganza. Bellezza necessaria a loro è vento, luce, uccelli, grilli, formiche e un traguardo di stelle verso cui puntare la formula dei rami.

Un albero assomiglia a un popolo, più che a una persona. S'impianta con sforzo, attecchisce in segreto. Se resiste, iniziano le generazioni di foglie. Allora la terra intorno fa accoglienza e lo spinge verso l'alto...

Impariamo alfabeti e non sappiamo leggere gli alberi. Le querce sono romanzi, i pini sono grammatiche, le viti sono salmi, i rampicanti proverbi, gli albeti sono arringhe difensive, i cipressi accuse, il rosmarino è una canzone, l'alloro è una profezia.

sabato 19 gennaio 2008

Parole

Tanti discorsi, libri, riflessioni, tanto "cogito ergo sum" (penso dunque sono) dove ci hanno portati?

Sento la necessità di respirare parole nuove, perchè anche le parole sono inquinate. Ecco allora parole-aria, parole-nuvole, parole-vento per reimparare a pensare e ad agire.


"Come un'ape raccogliendo il miele, assapora il fiore ma non ne danneggia il colore o il profumo. Così ha detto il Buddha. Dunque, occorre sapere se siamo simili a un'ape o a qualcos'altro" .

(Shunryu Suzuki, Lettere dalla vacuità)


"Non c'è tranquillità nelle città dell'uomo bianco.
Non si ode il fruscio delle foglie che si aprono in primavera né il frullare delle ali degli insetti... e cos'è la vita se un uomo non può sentire il richiamo del caprimulgo o il gracidare delle rane di notte, attorno allo stagno?...
Ciò che accade alla terra, accade ai figli della terra.
Se l'uomo sputa sul suolo, sputa su se stesso.
Questo sappiamo... non è la terra che appartiene all'uomo ma l'uomo alla terra.
Tutte le cose sono unite tra loro come il sangue che lega una famiglia.
Ciò che accade alla terra accade ai figli della terra.
Non è l'uomo che ha tessuto la ragnatela della vita; lui ne è solo un figlio.Ciò che fa alla ragnatela lo fa a se stesso".


(Capo Seattle, Nelle città dell'uomo bianco)

lunedì 14 gennaio 2008

Vergogna e preghiera

In un libro bellissimo e densissimo "Politica della bellezza", uno di quei libri che ti aprono nuove prospettive di pensiero e paradigmi di vita, James Hillman parla del "brutto e dell'enorme" che caratterizza le nostre città e condiziona la nostra vita quotidiana.

Pensiamoci un attimo: parliamo e discutiamo di superstrade, di treni ad alta velocità, di supercalcolatori, di surriscaldamento globale; frequentiamo super e ipermercati, abitiamo o lavoriamo in grattaceli, in grandi costruzioni.

Tutto questo (e altro beninteso) spiega Hillman crea "un ottundimento psichico che è il nostro attuale malessere, una anestesia della nostra sensibilità".

Tra i fattori per la cura dell'enormità e del brutto (ne riparleremo) Hillman indica anche la VERGOGNA. La vergogna che ci fa arrossire è un "vero e proprio afflusso divino, è l'emozione dell'ecologia".

E al riguardo cita questo bellissimo canto Navaho che, ogni giorno, dovremmo recitare come una preghiera, come un salvacondotto.


Mi vergogno di fronte alla terra;
mi vergogno di fronte ai cieli;
mi vergogno di fronte all'alba;
mi vergogno di fronte al crepuscolo;
mi vergogno di fronte al cielo azzurro;
mi vergogno di fronte alle tenebre;
mi vergogno di fronte al sole.

Una di queste cose mi sta sempre guardando.
Non sono mai al di fuori del loro
sguardo.

martedì 8 gennaio 2008

Calendario

Ho trovato su un bel libro di poesie di Giuseppe Conte, L'ultimo aprile bianco, la traduzione del calendario dei Sioux-Oglala. Si chiama "Lune".

Quanto amore e rispetto per la vita, quanta anima sprigionano queste parole-essenze. Nessun compiacimento estetico-letterario o intimismo inteso come supremazia del proprio io (do you remember Leopardi?).
Solo natura, poesia e bellezza come doveva essere all'inizio del mondo.


Luna del Ghiaccio nella Tenda
Luna dei Vitelli Rosso Scuro
Luna degli Accecati dalla Neve

Luna quando appare l'Erba Rossa
Luna quando i Cavalli perdono il Pelo
Luna che ingrassa

Luna delle Ciliege Rosse
Luna delle Ciliege Nere
Luna quando ai Vitelli cresce il Pelo

Luna del cambio di Stagione
Luna delle Foglie Cadenti
Luna degli Alberi Scoppiettanti.

venerdì 4 gennaio 2008

Amici in pizzeria

Succede una sera tra amici, in pizzeria. Succede che i discorsi si fanno intensi e leggeri, caldi e sinceri, scendono compatti come fiocchi e si posano senza fare rumore. E insieme ai discorsi, i ricordi.

"Ho l'immagine ancora viva di quando, avrò avuto due o tre anni, ero in braccio a mio padre e gli chiedevo dov'era la mamma. Lui non lo sapeva e non sapeva neppure come fare per darmi da mangiare".

"Io ricordo da ragazzino una vigilia di Natale al cinema con mio padre, una delle poche volte insieme, a vedere Ben Hur. Poi siamo usciti e scendeva la neve".

Uomini in pizzeria. L'amicizia che scalda e scioglie i cuori. Uomini che evocano il passato e intanto (anzi, forse proprio per questo) progettano il futuro. "Allora deciso: a maggio in Spagna a trovare M. e poi trekking e terme dalle parti di Siena".

Uomini che stanno bene insieme. Ah, dimenticavo. Ieri sera non solo dentro ma anche fuori, nevicava.

giovedì 3 gennaio 2008

Come siamo e cosa vogliamo

Siamo felici ma solo in "privato". Siamo "arrabbiati" e vediamo gli altri come "opportunisti". Ci sentiamo sempre più "depressi" ed "egoisti", ma soprattutto viviamo in una dimensione di "disillusione".

Disillusi nei confronti della politica e della società. Non le beviamo più e pronunciamo le parole con sospetto. Ma crediamo ancora nel futuro, abbiamo speranza nel futuro se alla domanda "Cosa serve all'Italia?" rispondiamo, nell'ordine, "più giovani al posto di comando" (40,8%), "migliorare la scuola e l'università" (31,3%) e "più autorità e decisione da parte di chi comanda" (29,2%).

A seguire riteniamo che all'Italia serva:

  1. più solidarietà sociale,
  2. più disponibilità a fare sacrifici per il bene comune,
  3. più ottimismo e fuducia in se stessi,
  4. più attenzione alla tecnologia e alla innovazione

E' questa la fotografia che emerge dal sondaggio Demos-Eurisko, i cui dati sono pubblicati oggi da "La Repubblica".

Strano come non venga elencato un valore e uno strumento come quello della partecipazione. Partecipazione alle scelte politiche che ci riguardano come cittadini, partecipazione alla costruzione del bene comune, partecipazione come crescità del senso civico.

Non è certo un caso che gli intervistati ritengano se stessi "arrabbiati" e gli altri "opportunisti" e che ci si senta "disillusi".

Ma la rabbia, la disillusione senza la "partecipazione" rischiano di produrre opportunismo, mancanza di senso civico, di disponibilità a concorrere al bene comune, arte in cui siamo saldamente maestri.